venerdì 21 agosto 2009

I FIGLI PIU' AMATI

Questo è un articolo, contenuto nel bimestrale "Famiglia Oggi" (*), di Gianni Selleri, psicologo - lo stesso che ha scritto un libro da cui presi spunto per questo post; l'ho riportato per intero, perchè espone in maniera chiara e analitica quello che succede ai genitori come noi.
Risale al 1999. 'E cambiato qualcosa?
La presenza di un disabile condiziona i comportamenti di un nucleo familiare. I diffusi atteggiamenti iperprotettivi e di autoesclusione possono soltanto peggiorare molte situazioni. In tutto questo gli aiuti esterni, spesso, sono carenti o inesistenti.
Alla nascita di un figlio sono connesse profonde aspettative di gratificazione personale e sociale. Quando invece del "bambino sano e bello" nasce un figlio con handicap, l’evento è angosciante e luttuoso. «Da dove viene questo bambino che non ci rassomiglia? Perché è successo proprio a me?». È un enigma che pone domande sulle cause e sulle responsabilità. Ma anche quando c’è una spiegazione eziologica, essa non allevia la disperazione, implacabile e irrazionale. Resta il fatto che il bambino che è nato non corrisponde a quello ideale che si aspettava, mentre il figlio handicappato realizza i fantasmi del bambino "anormale e mostruoso", presente nell’immaginario delle donne incinte.
In certi ambienti un handicappato è considerato una vergogna, una "punizione divina", il frutto di colpe e di tare ereditarie, ma anche in contesti culturali evoluti la reazione sociale è negativa benché più velata; proprio perché le attese di prestigio sociale e di gratificazione personale sono maggiori, gli atteggiamenti di commiserazione sono diffusi.
Nella famiglia considerata come unità sistemica, la realtà e la presenza di ogni componente influenzano quella di tutti gli altri; la famiglia in cui vive un handicappato è una famiglia a rischio: sono state rilevate alte percentuali di separazioni, di distacco dalla vita attiva e di relazione, sono frequenti depressioni della madre e pressoché costanti situazioni di nevrosi e di disadattamento dei fratelli.
La famiglia dell’handicappato si colloca in una posizione di frontiera, in una terra di nessuno, fra la salute e la malattia, fra l’uguaglianza e la devianza. Il dato, che non trova soluzione, è costituito dal fatto che quel figlio non ha una valenza sociale positiva e quindi non può essere oggetto di scambio e di comunicazione con le altre famiglie e col resto della comunità, nelle funzioni affettive, economiche e simboliche.
In Italia vi sarebbe circa 1 milione di queste famiglie e oltre 150 mila nuclei in cui vive un disabile non autosufficiente o in situazione di gravità.
Le difficoltà sono correlative alla tipologia e all’entità della disabilità: bambini con deficit sensoriali, bambini con trisomia, pluriminorati (per cause genetiche, disfunzioni metaboliche o cerebrolesioni), bambini con deficienze mentali o intellettive. Ogni singola situazione pone specifici problemi e sofferenze per la famiglia e richiede interventi di sostegno e di riabilitazione. È tuttavia possibile indicare, in esse, dei dati costanti.
Uno dei principali elementi di trauma, che condiziona i comportamenti successivi, è costituito dalle modalità con le quali la famiglia viene informata e prende conoscenza dell’handicap del figlio. La scoperta può essere immediata o tardiva, ma quasi sempre avviene nella solitudine e nell’isolamento dei genitori senza un appoggio medico-sociale che sia tale da definire certezze o ipotesi ragionevoli sui deficit del figlio e sulle possibilità di recupero.
Accade anzi che in questa circostanza le comunicazioni dei medici rafforzino sentimenti di inquietudine, di incertezza e di colpevolezza inconscia: «Non ci si può ancora pronunciare, non sarà mai normale, ne faccia un altro, lo metta in istituto!». Tutto questo costituisce un atto formale di rifiuto, compromette ogni percezione realistica e alimenta ansie depressive o persecutorie.
La carenza e la distorsione delle notizie rendono difficile soprattutto l’intervento attivo dei familiari nel processo della riabilitazione, i genitori si trovano invece abbandonati in una ricerca confusa di soluzioni improprie (consulti, centri di cura esteri, guaritori, terapie esoteriche), il cui fallimento costituirà una permanente diffidenza per gli ulteriori interventi educativi, riabilitativi e di socializzazione nei confronti del figlio.
Dopo questa prima fase di choc la presenza del bambino disabile produce una ristrutturazione delle relazioni familiari.
La madre assume l’impegno assistenziale in senso totale e talvolta ossessivo (la rinuncia al lavoro è costante). Finché il bambino è piccolo, le attività di cura sono vissute come reali e normali, in seguito interviene una presa di coscienza di anomalie fisiche, psichiche e comportamentali, per cui i bisogni del figlio diventano l’esteriorizzazione del suo stato patologico e quindi di una situazione fortemente negativa: allo sviluppo fisico non segue quello della personalità e dell’autonomia. Questa constatazione rafforza e prolunga la fase della dipendenza del figlio, anche oltre i suoi bisogni oggettivi.
Il tempo si è fermato
Il comportamento del padre oscilla fra tentativi di "fuga" (soprattutto attraverso la ricerca di gratificazioni professionali), atteggiamenti di "rivendicazione" sociale o culturale o posizioni di passività e di distacco ("padre assente"). Le comunicazioni fra i genitori sono soprattutto centrate sui problemi dell’handicap e si determina un’attenuazione o rimozione dell’affettività e della sessualità nella coppia.
Per quanto riguarda la presenza di un fratello, se è nato prima di quello handicappato gli viene sottratta gran parte dell’attenzione e gli si impone di responsabilizzarsi; se è nato dopo deve riparare la ferita narcisistica che hanno subito i genitori e prepararsi a sostituirli nei compiti di custodia e di assistenza.
La relazione dei genitori con il figlio disabile è caratterizzata da atteggiamenti di iperprotezione che impediscono lo sviluppo della personalità, delle capacità residue; talvolta si verificano invece fasi di ipervalutazione delle possibilità del figlio: «Lui è intelligentissimo, potrebbe fare l’università, sono gli altri che non lo capiscono e lo rifiutano».
Un altro dato costante è una sorta di "immobilizzazione del tempo". Tutti gli educatori di handicappati adulti descrivono famiglie che vivono il rapporto coi figli come se fossero bambini piccoli; la famiglia sembra bloccata sul trauma originario, drammaticamente chiusa sulla sua sventura: il tempo si è fermato, l’handicappato è un eterno bambino.
Il figlio handicappato è preso in carico dalla famiglia, salvo i periodi di delega alle istituzioni scolastiche o ai centri diurni; tuttavia questo appoggio è vissuto come anonimo, collusivo e talvolta persecutorio.
Ogni altra richiesta di aiuto è carica di significati "personali"; quando è rivolta a parenti, amici o altre figure importanti, per la famiglia comporta il riconoscimento di una sorta di propria incapacità o inadeguatezza nei confronti dei bisogni del figlio e per questo si lamenta la mancanza di offerta di aiuto e nello stesso tempo si rifiuta qualsiasi possibilità di ottenerlo. Questo fatto, che deriva probabilmente dalla vergogna genetica e sociale del "figlio malnato", costituisce comunque una forma di severa autoesclusione e di limitazione delle relazioni di vita.
Per i problemi di riabilitazione e del coinvolgimento della famiglia (il cui ruolo è indispensabile), è importante essere consapevoli che essa svolge un tentativo costante di omologazione e di mascheramento della diversità del figlio con lo scopo di evitare atteggiamenti sociali negativi. Si tratta, tuttavia, di una intenzione impossibile perché l’handicappato è oggetto di interventi educativi, sanitari e assistenziali che lo rendono "trasparente" ed esposto a valutazioni oggettive, nelle quali la famiglia si sente coinvolta negativamente.
Per gli operatori l’handicappato costituisce un problema tecnico, secondo il modello dell’agire razionale rispetto allo scopo; per i genitori è un’appartenenza esistenziale dolorosa e ineliminabile. Questa discrepanza e asimmetria percettiva devono essere sempre tenute presenti.
Un altro nucleo di problemi è costituito dall’immagine sociale negativa e dalla posizione di isolamento nel quale si pone e si trova la famiglia, oggetto di commiserazione, di incomprensione, d’indifferenza o addirittura di ostilità e di aperto rifiuto.
Per quanto sia difficile il passaggio dalla descrizione degli atteggiamenti collettivi alle prospettive del loro cambiamento, sembra di poter dire, in termini generali, che la persistenza dei pregiudizi o le carenze di solidarietà derivano, in gran parte, dalla "gestione privata" dell’handicap, che per certi aspetti supplisce il disinteresse pubblico e per altri esclude la possibilità di coinvolgimento e di partecipazione del contesto sociale.
Questa realtà indica anche la separatezza delle istituzioni scolastiche educative e di quelle socio-assistenziali che spesso falliscono il loro scopo di agenzie di socializzazione e di trasmissione di modelli comportamentali e culturali.
Per i genitori vi è non soltanto l’impossibilità di realizzare una maternità o una paternità normale, ma anche, per le disfunzioni del sistema socio-sanitario, di attuare un progetto guidato e razionale di riabilitazione e di assistenza. La famiglia, abbandonata a se stessa, deve dare una risposta alla nascita e alla crescita del figlio handicappato, ogni componente deve continuamente ridefinire la propria posizione rispetto ai problemi che progressivamente suscita il figlio diverso.
Delega passiva
La scelta possibile consiste nella presa in carico totale del problema, con conseguenti sentimenti d’impotenza e di frustrazione, di infelicità e di disadattamento, oppure in un comportamento di delega passiva nei confronti delle istituzioni.
Dopo queste considerazioni, si deve riconoscere la particolare difficoltà e complessità di una progettazione di interventi di integrazione e di riabilitazione, ma soprattutto si deve affermare che non si possono disgiungere i problemi degli handicappati da quelli delle loro famiglie.
Si possono individuare le seguenti aree-problema distinguendo tra disabili in età evolutiva e disabili adulti.
Per i primi emergono le seguenti esigenze: necessità di una corretta informazione sulle cause e la natura dei deficit e sulle eventuali tappe di riabilitazione e di socializzazione; interventi psico-sociali sui genitori per evitare o contenere reazioni di cordoglio o di depressione; interventi per prevenire il distacco o la separazione della famiglia dal contesto sociale, evitando la gestione privata dell’handicap o la ricorrente "ritirata nell’invalidismo"; consulenza interdisciplinare per le possibili terapie di recupero, per l’inserimento scolastico, per sistemi di lavoro assistito o di terapia occupazionale, per la partecipazione all’attività di tempo libero.
Per l’attuazione degli obiettivi indicati occorre evitare la frammentazione di competenze e la molteplicità di operatori (sociali, sanitari, assistenziali, pedagogisti, psicologi) che per la diversità di approccio epistemologico costituiscono spesso causa di distorsione e di confusione percettiva, motivo di contraddizione e di ulteriori ansie per i familiari.
Bisogna individuare un operatore unico con prevalenti compiti di assistenza familiare che svolga sostanzialmente una duplice funzione: la prima centrata sulla famiglia e sulle sue dinamiche in rapporto al figlio handicappato; la seconda di sostenere un compito di correlazione e di comunicazione con le istituzioni e con il contesto sociale. Per gli handicappati adulti le soluzioni positive sono: servizio di assistenza domiciliare; servizi di emergenza assistenziale o di sollievo; centri diurni; residenze sanitarie assistenziali; prestazioni di socializzazione.
Anche in età adulta è indispensabile una figura di rappresentanza della famiglia con specifico riferimento ai problemi dell’invecchiamento dei genitori.
(*) qui il sito da dove ho tratto l'articolo

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